Salvatore D'Addario
 
 
 

Contributi di critica

 

Aldo Severini

Spazio e sogno

Salvatore D'Addario, poco più che trentenne, è un nome che si è già conquistato un suo posto, una precisa collocazione nel panorama della pittura marchigiana, senza però relegarla alla semplice regionalità. È questo un problema "antico" sul quale il sottoscritto ha sempre avuto dei grossi dubbi. Si può essere legati solidamente alle radici dei luoghi di nascita e, nel contempo, appartenere a un più vasto movimento creativo, ideale e culturale. È questo, a mio giudizio, ciò che si può dire, oggi, di Salvatore D'Addario.

Leggere nella pittura di questo giovane, fatta, come vedremo, di pochi segni e di pochi colori (alcuni quadri hanno semplicemente dei "tocchi" di colore, in un ampio spazio bianco), D'Addario si avvale di questi due elementi, direi in modo assoluto: dello spazio e del sogno. Davanti a una tela di D'Addario si possono fare dieci/cento discorsi, dare dieci/cento interpretazioni, perché vi sono insiti tanti elementi che estraiamo dalla realtà circostante, ma i cui significati variano da opera ad opera e pure i segni, talvolta molto simili o persino "uguali", cambiano di significato. Si ha davanti l'universo e l'infinito, come già mi è capitato di scrivere su una sua mostra. Ed è in questo spazio che egli colloca i suoi "oggetti", che "spande" i suoi colori: egli si avvale del concetto di ambiguità che è proprio dell'arte. Di pochi segni è fatto il suo wind surf che alla sommità del suo pennone non ha una vela di plastica, ma uno straccetto, uno straccetto rosso che può significare cose diverse: segnale di pericolo per chi tenta di avventurarsi in mare (nel sottofondo infatti D'Addario "sporca" la tela di un tenuissimo giallo, arricciato alle estremità, equivalente a un mare in burrasca), segnale di naufraghi che cercano di richiamare su di essi l'attenzione di altri natanti sulla loro o sulle vicine rotte. Sull'ideale linea dell'orizzonte può indicare delle vele appaiate, quasi che stessimo ad assistere a una regata velica; può innalzare, fuori d'uno spicchio, d'un segmento semicircolare, una lunga linea come un fusto d'albero che si assottiglia in alto: ebbene può essere una canna di bambù, può essere un soggetto che "sfugge" alla gravitazione terrestre, può essere una ciminiera e quel segno in diagonale può essere fumo, può essere foglia, può essere simbolo di uno slancio verso una libertà, sempre conclamata ma mai raggiunta. O prendiamo quel quadro con due semicerchi, uno celeste e uno marrone scuro, con al centro una macchia più scura, in cui possiamo vedere l'imbocco di due tunnel o l'ingresso di due grotte, entro le quali potrebbe vivere un Robinson Crusoe o una nidiata di cuccioli leonini o, magari, un troglodita che si è scelto quel giaciglio per sfuggire a una realtà ben più cruda e per lui inaccettabile d'un mondo (o d'una città) e vuole imporgli codici, linguaggi, metodi di comportamento ch'egli non accetta. Prendete un altro quadro dove vi è disegnato un oggetto ovoidale allungato, con un occhio che ritrasmette a terra le sue sensazioni, formando al tempo stesso altre figure geometriche, alle quali si potrebbero dare altri significati (centri abitati, la fragilità di certe nostre conquiste – quei segni mossi e diseguali, che possono anche essere strade, superstrade, autostrade), sempre che si faccia lavorare la fantasia (il sogno, come l'ho definito, che agisce nello spazio creativo dell'artista).

Il discorso potrebbe allungarsi veramente all'infinito, perché le immagini si moltiplicano; di tela in tela, ora con forme di uova appena depositate da mamma pesce, ora forme di pescecane con tutta la dentatura ben visibile, o tende nel deserto o quadrati e frecce (centri urbani o sperduti casolari di campagna o segnali direzionali); aquiloni che volteggiano nell'aria, sfuggiti ai bambini e ancora altri segni, altri simboli, altre geometrie che sarebbe un modo del tutto limitato di parlare di questa pittura, apparentemente scarna, semplice, irrilevante e che, invece, si porta dietro un'infinità di valori. D'Addario non ha ottenuto quelle opere, non ha tracciato quei segni a caso, vi ha studiato a lungo, essi sono il frutto di lunghe ricerche estetiche e non solo estetiche. Dietro quei segni c'è l'impegno dell'artista per parlare di linguaggio che non sia usuale, esca dai clichés che ognuno di noi conosce, per entrare in un altro mondo, il mondo del sogno, il mondo dell'orfìsmo, come direbbe Campana.

Una cosa è certa, ci troviamo in presenza di un artista che sa usare il pennello, ma più del pennello fa lavorare il suo intelletto e chiede che gli altri, su questa falsariga, lo seguano. È una strada difficile, sulla quale possono nascere o incontrarsi delle incomprensioni, ma l'artista è deciso a superarle, per dare del mondo nel quale viviamo non una visione monocorde, grigia, monotona, ma una visione ricca di spunti dialettici e d'immaginazione, attraverso i quali sia possibile sempre più e meglio comprenderla e adeguare gli strumenti per dominarla.

Io credo che artisti di questa levatura non ne nascano tanti ed è per questo motivo che dobbiamo saperli seguire nel loro iter creativo e dobbiamo anche fare quel che ci compete per farli sentire vicini al nostro modo di sentire, vicini alla sensibilità dell'uomo, come singolo e come collettività. L'accostamento che in altre occasioni ho fatto col grande Licini non è casuale: stiamo nel mezzo di un'arena, un'arena dove nasce e cresce la poesia, perché al fondo di tutto, al fondo dello stesso binomio spazio/sogno, sta, appunto la poesia e, una volta tanto la Poesia con la pi maiuscola.

Forse è inutile, ma voglio dirlo lo stesso, di questo pittore sentiremo ancora parlare, e, magari, ne parleranno altri più qualificati di me, per dargli il posto che merita nel panorama delle arti figurative moderne, alle quali D'Addario cerca di dare non solo un contributo, ma una svolta decisiva per essere sempre più arte, cioè creazione, e non inseguimento di mode e tradizioni largamente superate.

1982 (pubblicato in "Azimut")

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